Sabato 13 ottobre 2018, dalle ore 17,00 alle ore 20,00 “Apertura straordinaria” del Museo Archeologico Nazionale di Eboli, in Piazza San Francesco, in occasione della 14^ Giornata del Contemporaneo, dove nell’ambito del “Concetto di casa nel tempo”, inaugurerò la mia mostra personale di pittura dal titolo : Visioni Urbane, curata dallo storico e critico d’arte Gioia Cativa.
L’esposizione sarà aperta al pubblico dal 13 ottobre al 31 dicembre 2018.
L’evento è patrocinato dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali polo museale della Campania, dalla Città di Eboli e da AMACI – Associazione dei musei d’arte contemporanea italiani.
Introduce Giovanna Scarano Direttore del Museo Archeologico, Saluti di Massimo Cariello, Sindaco di Eboli.
Visioni Urbane al Museo Archeologico di Eboli.
“La Giornata del Contemporaneo, promossa dall’Associazione dei musei di arte contemporanea italiani (AMACI) , è diventata uno degli appuntamenti ai quali il Museo Archeologico di Eboli e della media valle del Sele aderisce intendendo mostrare e dimostrare lo stretto e naturale legame esistente fra archeologia ed arte contemporanea, evidenziando la continuità del percorso storico nel quale le esperienze del passato rappresentano naturalmente le fondamenta sulle quali si costruiscono sempre ed inesorabilmente Presente e Futuro.
Quest’anno sono le opere di Leonardo Pappone, pittore ormai noto nel mondo artistico, che ci permetteranno di cogliere il filo diretto che collega l’Oggi al Passato, attraverso quelle che lui stesso definisce Visioni Urbane . Si tratta di frammenti di città costituiti da grattacieli, a volte scuri, grigi, e allora sembrano spenti, a volte molto colorati, e allora appaiono vivi, ma tutti s’innalzano e si protendono verso l’alto, ma coloro ai quali quegli spazi sono destinati non s’intravedono mai!
Chiudendo gli occhi appare immediato e del tutto naturale ritornare alle prime abitazioni dell’uomo, che poi tali non erano, almeno secondo quanto s’intende normalmente per abitazione. Erano infatti rifugi, ripari esistenti in natura che garantivano una protezione dagli agenti atmosferici, dagli animali affamati, poi la nascita e l’evoluzione riprende dalla semplice capanna che via via si differenzia, e non solo a seconda delle caratteristiche dei luoghi in cui sorge, poi le prime case in pietra, in muratura, le maggiori dimensioni e il moltiplicarsi degli spazi e delle relative funzioni e degli abbellimenti vari diventando sempre più espressione della classe sociale di appartenenza .
Il vero concetto di casa, però, va oltre lo spazio fisico e la tipologia delle strutture che lo definiscono, essa rappresenta un’idea, un desiderio. Nell’inconscio di ciascuno è un luogo sacro dove ci si prende cura di sé e di coloro ai quali si è legati da legami di sangue e di amore, dove vive, o dovrebbe vivere, il vero IO, libero da ogni obbligo sociale, da ruoli e regole sedimentate e codificate nel tempo. E’ il luogo in cui ciascuno manifesta la propria Umanità , dove non c’è l’ansia di doversi sempre e soltanto mostrare al meglio, e dimostrare il proprio prestigio. Ci si chiede però: il ritmo serrato e frenetico imposto dalla nostra quotidianità ci lascia liberi quando siamo a casa? O meglio, la nostra casa è ancora in grado, se lo è stata mai, di offrirci quel confort che pubblicizzano i costruttori? E’ possibile, quando si è in casa, non permettere all’Esterno di entrare?
Un architetto potrà di certo progettare un’abitazione funzionale alle esigenze della vita attuale, ma nessuno potrà mai assicurare allo spazio temporale in cui si vive al suo interno il senso di calore ed intimità che dovrebbero appartenerle. Si potrebbe affermare che la vera casa può costruirla ognuno di noi con il proprio mondo intimo , con la propria essenza di essere Umano che è Amore nel senso più ampio del termine, abitare in una casa di certo non vuol dire semplicemente occupare uno spazio.
Pertanto uno dei più piccoli ed angusti appartamenti di uno svettante grattacielo può contenere gioia e tranquillità mentre la dimora più spaziosa ed artisticamente ricercata può diventare fredda ed anonima.
In fondo: la casa siamo NOI.
Mi sembra infine opportuno sottolineare come i manufatti che noi riteniamo appartengano all’Arte vanno sempre interpretati non come potrebbe ritenere l’autore ma come sente chi le osserva e legge, perché una volta formate le opere diventano in qualche modo altro da chi le ha concepite, prestandosi a letture diverse legate a chi sta loro di fronte”.
Giovanna Scarano ( direttore del Museo Archeologico di Eboli e della media valle del Sele).
“La città è una stupenda emozione dell’uomo. La città è un’invenzione; anzi: è l’invenzione dell’uomo.
(Renzo Piano)
“Le rappresentazioni di città, siano esse simboliche, reali o ideali, hanno trovato sin dall’antichità uno spazio ben definito nelle arti figurative. Immagini urbane accompagnate da scene di guerra e di conquista, sono già presenti nell’arte delle popolazioni mesopotamiche. Nelle immagini medievali la rappresentazione della città si arricchisce della cinta muraria ed inizia ad essere vista dall’interno con degli straordinari risultati pittorici, come nell’affresco “Effetti del buongoverno in campagna ed in città” di Ambrogio Lorenzetti. Continua a sopravvivere, inoltre, soprattutto per scopo celebrativo, la rappresentazione metonimica della città attraverso il monumento isolato o l’accostamento degli edifici più celebrativi. La tappa successiva è l’immagine della “città ideale” rinascimentale, nella quale spazi urbani e strutture architettoniche diventano razionali fino ad arrivare al XVII secolo, nel quale inizia un processo che porta all’affermazione della veduta urbana, orientata verso gli aspetti essenziali e verso una nostalgia che unisce vecchie rovine alle strutture contemporanee. Risulta chiaro, andando avanti nei secoli, che il fascinoso tema della città abbia spinto ed ispirato moltissimi artisti e conosciuto una fortuna rappresentativa durante il boom della rivoluzione industriale, rivelando una molteplicità di aspetti e proiezioni.
Ma lo sviluppo della città ha sempre diviso sul lato emozionale. Non sempre il progredire delle “cities” ha trovato appagamento e soddisfazione in tutti. Ci sono stati artisti che ne hanno esaltato lo sviluppo urbano, sottolineandone le enormi potenzialità da mega agglomerati urbani, mentre altri ne hanno evidenziato il caotico ammasso umano come un girone infernale 2.0 che neanche il sommo Dante avrebbe potuto immaginare.
Ora, l’idea di allestire all’interno del Museo Archeologico Nazionale di Eboli e della Media Valle del Sele, alcuni dipinti dell’artista Leonardo Pappone, in arte Leopapp, a molti potrebbe sembrare un accostamento forzato quando in realtà è un avvicinamento dicotomico capace di creare un filo invisibile che nasce dalla lontana Età del Bronzo per arrivare ai nostri giorni. Un museo come quello di Eboli raccoglie reperti di civiltà perdute permettendo un’attenta analisi degli usi e costumi dei primi uomini. Mettere a confronto il lavoro di Pappone, personalmente, risponde ad un’esigenza che nasce dalla necessità di un confronto fra il passato ed il presente.
Questo artista ha creato un proprio sistema codificato attraverso il quale dipinge ed entra in contatto con l’esterno, lavorando in modo totalizzante sulla dimensione segnica. Rimasto sin da subito colpito dall’arte rupestre e dalla nascita dell’arte urbana o street art, Pappone ha compreso il reale valore allegorico di un insieme di segni che, seppur lontani anni luce dall’arte che siamo soliti conoscere ed apprezzare, ha avuto grande consenso. Ha creato un codice urbano espressivo che, nel corso degli anni, si è evoluto in discorsi sempre più pittorici pur rimanendo ferma e decisa la natura del segno che connatura la sua produzione. Dai segni urbani è passato alla rappresentazione urbana che viene presentata in “ Visioni Urbane ”, una serie che mostra l’interesse per la città futura, in continua espansione e sinonimo di dinamismo e velocità, termini profetici per i futuristi, realtà collaudata oggi. Pappone costruisce paesaggi metropolitani che sembrano “soli”, lasciati a sé stessi come risucchiati all’interno di un’invisibile cupola in stile Stephen King.
Grattacieli, skyline metropolitani, forme d’acciaio e cemento armato che si ergono svettanti in un moto ascensionale vibrante, vivi e dal tocco impressionista. I dettagli vengono dati da colpi veloci e decisi, tratti brevi ma ugualmente profondi. Non esiste alcuna staticità in queste forme verticali ma emerge il dinamismo e il movimento continuo di città che pullulano di persone, che non ci sono ma che si percepiscono in un gioco di luci ed ombre. Un’umanità invisibile, presente nell’assenza.
Se il colore e il codice urbano hanno caratterizzato la produzione precedente, qui comunque è percepibile un’attenta osservazione della società d’oltreoceano, a quell’americanità che ha influenzato intere generazioni dal dopoguerra. Tutto è sontuoso, esageratamente spettacolare, enfatizzato dalle megalopoli che, dal modello americano, nascono in paesi dove determinati tessuti urbani, un tempo, sembravano impensabili.
Ora, però, Pappone ritrova nella semplicità del segno un altro modo per comunicare con forza i suoi messaggi. Al dominio del colore viene alternato un affascinante bianco e nero, dove la dimensione turbolenta delle city sembra trovare una quiescenza, una dimensione più sonnolenta ma ugualmente viva. Il segno, in questa serie di lavori, diventa un ibrido fra le pennellate impressioniste e le macchie di colore tipiche del dripping e del colorismo americano, così studiate nella loro apparente spontaneità da sembrare lampi di luce, metafora del movimento veloce e continuo nelle strade.
Nella nuova era delle costruzioni e delle nuove città, pertanto, Pappone ha scoperto una poetica che riesce, in modo assolutamente personale, a descrivere nuove realtà urbane, riuscendo a donare un sottile velo malinconico alle moderne colate di cemento e ad imponenti strutture in ferro e acciaio. La nostalgia, però, nasce dalla consapevolezza che determinate strutture cittadine sono perse per sempre; città a misura d’uomo e soprattutto ad altezza d’uomo sono ormai un ricordo, sostituito da un verticalismo sempre più in ascesa”.
Testo a cura di Gioia Cativa, storico e critico d’arte